…. CARO AMICO MI SUICIDO….

Decidere di morire ma soprattutto decidere di non lasciare dubbi, il Maresciallo Presutti prima della pistola d’ordinanza utilizza una tastiera e via email ci dice che non sopporta più il sistema di cui fa parte e, per questo, decide di farla finita. https://infodifesa.it/pistoia-maresciallo-della-finanza-si-uccide-in-caserma-in-una-email-ad-infodifesa-annuncia-suicidio-ai-miei-funerali-non-voglio-che-ci-sia-la-rappresentanza-della-guardia-di-finanza/

Parole durissime quelle di questo finanziere, parole piene di risentimento, piene di astio, piene di delusione, come un marito tradito, schiacciato dal peso di chi, forse, ha dato tutto a quella divisa e, per questo, ritiene che nulla valga per continuare a vivere.

Sembrano poca cosa le motivazioni alla base di quello sparo, ti uccidi per l’ingiustizia? Per l’incoerenza? Per quei meccanismi dove ancora si sostiene che per essere un buon militare devi anteporre la divisa a qualsiasi cosa…. E magari ci credi così tanto che lo ritieni pure giusto…. Per poi non essere né ripagato, né valorizzato in un crescendo di immeritocrazia dannosa, cronica, evidentemente tossica.

Di immeritocrazia si può morire? Probabilmente si, almeno in questo caso, specie se davvero hai creduto che prima o poi il sistema ti ripaghi davvero dei tuoi sacrifici, dei tuoi doppi o tripli turni, senza riposo, senza reale soddisfazione ma solo perché in quella missione ci credi….

Vogliamo davvero credere che il Maresciallo Presutti abbia premuto il grilletto solo a causa di un trasferimento a un incarico non gradito? O forse quell’ultima risposta del sistema è stata solo l’epilogo di una professione che lo ha consumato e lacerato dentro a causa di meccanismi antichi, squallidi e umanamente pericolosi?

Le sue parole, le ultime, sono un macigno verso chi si ostina in maniera autoreferenziale a dire che va tutto bene, certo, troppo semplice sostenere che in fondo non può essersi ucciso solo per colpa di un presunto demansionamento ma non siamo tutti uguali e se ha deciso di spendere quelle parole così dure verso un corpo che probabilmente ha amato più di se stesso la riflessione non solo è doverosa ma assolutamente necessaria.

Bisogna fare di più, bisogna ascoltarci di più, tra di noi, bisogna che il personale, il militare (che per molti non è sinonimo) sia un valore non una macchina da sfruttare fino all’esaurimento approfittandosi di chi, forse, davvero crede che per essere dei bravi militari la divisa viene prima di tutto.

In Giacca Blu – Michele Rinelli

INUTILE CARCERE?

Un sistema che si mette in discussione è un sistema sano! Possiamo pensare quello che volete sul caso di Donatella Hodo che a Verona ha deciso di togliersi la vita ma le parole del magistrato che si mette in piazza rinunciando alla tipica arroganza del potere, al meccanismo di normale autoreferenzialità del nostro sistema, pone quella toga al di fuori dell’ordinario, un messaggio potentissimo il suo di cui dobbiamo fare tesoro.

Il dottor Semeraro, giudice di sorveglianza a Verona che da anni seguiva la vita di Donatella usa parole rare, si espone a ragionamenti quasi unici, ci dona la certezza che su quei tavoli qualcuno si ricordi che i fascicoli sono fatti di persone e non di carte.

Il dottor Semeraro, con rara schiettezza, mette in discussione il suo lavoro, si pone il problema di quanto ancora le carceri servano a qualcosa o almeno non servano nei casi come quelli di Donatella, tra reati bagatellari, disagio familiare e consumo di sostanze stupefacenti il carcere diventa, evidentemente, l’ennesimo luogo di solitudine e non di recupero.

Concetti pericolosi, pensieri che forse potranno dare qualche grattacapo al Dottor Semeraro, perché permettersi di mettere in discussione principi come quelli della rieducazione del detenuto dicendo al sistema di essere molto più fallace di quanto si possa ammettere?

Il giudice nella sua umanità, cosa di cui mai si parla, abituati come siamo a pensare ai giudici come noiosi e avulsi burocrati i cui sentimenti, tutti, si nascondono tra le polverose pagine dei codici, ci dice che dobbiamo ripensare a tutto, dobbiamo partire dalle persone per recuperarle senza dare per scontato che i sistemi non si debbano mai cambiare.

E se avesse ragione il dottor Semeraro? Se davvero le carceri, la riabilitazione vera del cittadino, sia solo ed esclusivamente è per la stragrande maggioranza dei casi, semplicemente dei problemi sociali? Se le carceri fossero solo dovute e necessarie per i grandi mafiosi, per gli assassini pericolosi, per coloro i quali minano davvero la sicurezza delle società? Può un ladro, in assoluto, essere considerato una minaccia mortale per la società stessa? Per lui è per altri individui incapaci di aderire al patto sociale si può trovare una soluzione diversa che non sia per esempio un cumulo di anni da scontare in carcere dopo il ventesimo furto e l’ennesima pena sospesa ?

Ci sono certamente storie di carcerati ben recuperati ma è troppo facile guardare solo ai successi quando, per esempio, il numero dei suicidi tra i detenuti è davvero molto alto per non parlare delle condizioni dei colleghi della Polizia Penitenziaria le cui vicende umane e professionali, oggettivamente, non interessano a nessuno.

…. Dai, ditelo, “chi è questo sbirro comunista” ? Il problema, vero, non è il pensiero politico più o meno sensibile alle condizioni sociali di una parte o di un’altra, il vero problema è che o le persone le recuperi davvero o tu spendi soldi semplicemente per imbruttirle ulteriormente, spendereste voi i vostri soldi per allargare le crepe di un muro di cinta? Se non cambiamo le cose, se non partiamo subito dal punto vista del dottor Semeraro per capire come chiudere le crepe al posto di allargarle la giustizia continuerà ad essere ingiustamente percepita solo ed esclusivamente come un costo dannoso e questo non può essere tollerato.

In Giacca Blu – Michele Rinelli

CHI SBAGLIA? SOLO IL RAZZISTA O CHI STRUMENTALIZZA?

https://www.ilmattino.it/AMP/napoli/cinese_placcato_dai_poliziotti_indagine_sul_video_choc_diventato_virale_napoli_frattamaggiore-6857766.html#amp_tf=Da%20%251%24s&aoh=16598780246634&referrer=https%3A%2F%2Fwww.google.com

Razzista, la divisa deve essere razzista, questa volta è “Il Cinese” nato e cresciuto in Italia che Italiano ancora non è, che cerca di scuotere le coscienze di noi italiani, benpensanti di provincia.

La provincia questa volta è quella di Napoli, un video, tagliato e cucito con didascalie e spiegazioni di parte, cerca ancora il Floyd Italiano, da Instagram a Facebook, alle testate nazionali lo sbirro fascista e razzista agita gli umori di una campagna elettorale in cerca di identità.

La frase che mi ha colpito di più di questa vicenda è “Un italiano è libero di andare in giro senza documenti”…. mi colpisce perchè è la classica frase buttata lì come lì, su Instagram, è buttato quel video tagliato in più punti, condito con istantanee di lividi e percosse provocate dopo una colluttazione, per quella che, potete vedere come vi pare, ma di resistenza a pubblico ufficiale si tratta.

Sbirri razzisti, con tanto di insulti verso lo straniero che, se provati, saranno certamente oggetto di dura sanzione da parte del sistema ma la domanda è: per quale motivo se sei un onesto lavoratore “italiano” non ti fai accompagnare tranquillamente in questura? Perché sei stato offeso nel tuo diritto di immigrato? Fai una denuncia, dimostralo in altre sedi, perché andare allo scontro?
Chi è in malafede? L’ignorante polizia, che sbagliando può anche esserlo ma non accettarlo, o l’italo cinese troppo cinese e purtroppo non italiano soggetto a diritti e doveri in relazione al suo status?

Abbiamo bisogno di umanità, di avere la percezione che ciascuno ha un proprio ruolo, il polizotto, l’immigrato, il razzista, in un ordine e all’interno di regole dove prima di tutto siamo tutti uomini che pagano per le loro azioni quando sono sbagliate perché un conto è sbagliare, un conto è strumentalizzare….

In Giacca Blu – Michele Rinelli

ELENA ERA IN SERVIZIO PER TUTTI NOI….

La notizia rimbalza da qualche ora sui social, Elena LO DUCA56 anni Assistente Capo Coordinatore è morta durante una operazione di soccorso della protezione civile di cui Elena faceva parte. https://www.telefriuli.it/cronaca/morta-elena-lo-duca-volontaria-protezione-civile-friuli-venezia-giulia-3/2/232231/art/

Elena infatti non solo vestiva la divisa della Polizia ma in queste ora con il suo gruppo di protezione civile era impegnata nelle operazioni di spegnimento dei roghi che in questi giorni roventi stanno distruggendo il nostro meraviglioso paese.

Elena, se pur impegnata in un servizio a tutela della collettività rischia di non essere riconosciuta come vittima del dovere, come persona caduta per una missione di servizio, un assurdo per una collega che proprio per il servizio che stava svolgendo non può che essere considerata caduta per la patria.

Si vuole per caso qualche dimostrazione ulteriore di attaccamento ai valori del corpo della Polizia di Stato? Si può davvero credere che questa morte debba passare come un incidente privato solo perché indossava la casacca della protezione civile?

Voglia il signora Capo della Polizia, il signor Questore di Udine valutare questa collega caduta nell’adempimento del dovere perchè la protezione dei civili rappresenta uno dei valori e dei compiti cardine della Polizia di Stato di cui Elena ha evidentemente rappresentato una tra le più alte espressioni, un esempio di dedizione e di attaccamento a quei valori inalienabili di ogni appartenente al corpo.

Speriamo che i più alti vertici vogliamo aderire a questa visione per dare il giusto onore e il giusto valore a questa collega.

Un pensiero sincero di vicinanza alla famiglia in questo drammatico momento.

In Giacca Blu – Michele Rinelli

VORREI LA PELLE NERA….

Vorrei la pelle nera per essere libero di capire, per comprendere quello che non vedo.

Vorrei la pelle nera, per scendere in strada e trovarmi a tu per tu con quella massa ignorante e xenofoba.

Vorrei la pelle nera per essere una vittima, magari libero di ignorare, di sfruttare le colpe dei bianchi che mai pagheranno per ciò che la storia ci racconta ogni giorno.

Avevamo bisogno di un calciatore, nero come la pece, per ricordarci che esistono i pregiudizi, i preconcetti, i vuoti umani e culturali, quelli dei bianchi ma anche quelli dei neri.

Cercavano un pericoloso gruppo di stranieri quei poliziotti, hanno trovato un famoso calciatore che ci ha ricordato che per quanto ci si possa sforzare, per quanto si possa avere decine di agenti di origine straniera in tutta Italia la polizia rimane razzista, lo rimane di fronte a un clamoroso errore, lo diventa perchè con quel famoso errore ci puoi speculare, ci puoi far intervenire addirittura Amnesty International….

Ma chi sono i razzisti? Quelli con la giacca blu? Quelli con la pelle nera? O semplicemente quelli che non avendo  poi più tanti argomenti da scagliare contro le Forze dell’ordine non gli è parso vero poter dipingere la storiella dello “sporco negro e dello sbirro razzista”?

Vorrei quindi la pelle nera per essere libero da un pregiudizio, vorrei quella pelle per poter dire quanto siano delinquenti gli italiani ma anche i miei copigmentati, perché non c’è libertà migliore di quella di poter essere liberi di essere quello che si è anche nelle situazioni più scomode, uno sbirro di colore…. evidentemente il massimo della libertà!

Esiste il pregiudizio, esisterà sempre, esisterà perché nel giudizio anticipato esiste un limite ma anche una necessità, una necessità di sopravvivenza in questo caso, perché se indossi una divisa devi capire da uno sguardo, da un atteggiamento, da una connotazione fisica se quello potrebbe essere il tuo ultimo alito di vita. Stavano cercando senegalesi armati, hanno trovato un innocente calciatore!

Lo sbirro purtroppo vive di pregiudizi, se così non fosse rischierebbe ogni giorno a maggior ragione la vita, ma sbagliato è credere che quel pregiudizio dipenda da uno stupido colore della pelle, non oggi, non con questa polizia, il pregiudizio, del resto, è sempre stato negli occhi di chi guarda.

In Giacca Blu – Michele Rinelli

NON ARMI PER TUTTI MA PIÙ CONTROLLO A SPESE DEI PRODUTTORI…..

È un pugno nello stomaco il massacro di Uvalde, in Texas, una follia che noi italiani facciamo fortunatamente fatica a comprendere, non abbiamo il fenomeno dei Mass shooter, non abbiamo la possibilità di acquisto di armi così semplice come in America ma questo non significa che questa storia non riguardi tutti noi.

19 anime innocenti, 2 insegnati, una di queste Eva Mireles moglie di un nostro collega, impegnata nella prevenzione e nella sensibilizzazione degli studenti al fenomeno degli sparatori di masse, infatti il marito, qualche settimana fa, ha concluso nello stesso istituto una esercitazione, con studenti più grandi, per la prevenzione e il contrasto degli sparatori.

Gli Stati Uniti, un paese che da sempre esercita in noi fascino e ammirazione… ma che paese è quello che costringe i suoi studenti ad affiancare le esercitazioni anti incendio a quella per contrastare l’azione del Mass Shooter?

Come si può accettare tanta follia dove addirittura una parte politica commenta “bisogna armare di più gli insegnanti!”…. Come si può credere che la violenza essendo evidentemente insita nella società debba essere banalmente sostenuta o contrastata anche con le armi da fuoco?

Ribadisco, è difficile commentare questa notizia con gli occhi di un poliziotto italiano ma è folle pensare di tenere in vita questa situazione solo per sostenere il mercato delle aziende armiere americane a meno che queste non comincino a sobbarcarsi importanti spese sociali e organizzative legate alla prevenzione e al l’intercettazione nonché alla gestione del disagio sociale…. E non è detto basti….

Ramos, lo sparatore di 18 anni, dalle prime foto non sembra essere il classico suprematista bianco ma una persona con un probabile disagio umano e personale… fermo restando che anche essere suprematisti evidentemente non sia proprio “normale”…. Ma se non si pone l’accento sulla prevenzione, sulla ricerca di disagiati da inserire in una blacklist a cui deve essere vietato detenere armi, se non si pongono limiti alla follia di certe menti avremo ancora tante morti da piangere ancora.

Questo però non vuole e non può oggettivamente essere un appello a una chiusura indiscriminata verso le armi, credo che i cittadini debbano e possano avere il diritto di averle sia per passione che per diletto se non addirittura per una sana e adeguata difesa abitativa ma più aumenta la libertà di acquisto di un’arma più il sistema deve concepire un elevato sistema di prevenzione per il contrasto a fenomeni di disagio che possano anche sfociare in un uso pericoloso di possibili armi detenute legalmente.

Nulla di facile, sia chiaro, ma nemmeno di impossibile i cui costi devono però ricadere sui produttori e sui possessori legali, sani e onesti, delle armi perché la società necessita di sistemi di controllo laddove possano insinuarsi meccanismi pericolosi e qualcuno, purtroppo, deve farsi carico dei costi.

Un pensiero quindi non può che andare a quei piccoli angeli la cui unica colpa è stata quella di essersi trovati in un luogo che per definizione dovrebbe essere il piu sicuro al mondo: la scuola!

In Giacca Blu – Michele Rinelli

30 ANNI… E UN GIORNO!

No, non si può dimenticare il trentennale della strage di Capaci, non si può, non si deve perché per chi è della mia generazione quel giorno rappresenta un punto di svolta sociale e culturale.

Era un sabato pomeriggio assolato, non esisteva internet, erano ancora lontani i tempi del 56k, dei siti internet come li conosciamo oggi, quel 23 maggio, tardo pomeriggio, tornato a casa, tv accesa, passavamo sequenze assurde, immagini dall’alto, di un elicottero, forse della polizia che documentatava il fatale attentato a Giovanni Falcone.

Quel 1992 fu un anno terribile, pazzesco, si moriva di mafia, si uccideva per mafia, si annientavano giudici, prima Falcone poi Borsellino, due simboli di quella magistratura che tanto ci manca, quella magistratura pulita, sana, capace di darci prospettive di giustizia.

Nel turbine della solita retorica, della fragile retorica delle ricorrenze, quello che manca di quell’epoca è, appunto, l’esempio, la prospettiva, l’intima speranza di giustizia di cui tutti, davvero tutti, abbiamo bisogno.

Si parla di mafia in queste occasioni, forse però poco si parla di quello che è la mafia, ingiustizia, illegalità, malaffare, ci sbracciamo a ricordare, a non dimenticare ma di quell’epoca abbiamo perso la speranza che avremmo avuto un mondo migliore perché c’erano persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Gli uomini, della scorta, Rocco, Vito Antonio sono morti nella speranza della giustizia, di un paese più giusto, per difendere chi, in quel momento ci faceva credere che potevamo e dovevamo credere che con loro, insieme a loro, avrebbe vinto la legalità non solo in Sicilia.

30 anni e un giorno, un giorno in più, quel giorno dopo per chiederci : Quanto ci manca quella speranza di giustizia?

Onori a Giovanni, Francesca, Vito, Rocco, Antonio

In Giacca Blu – Michele Rinelli

MAI PIÙ…..

Le sentenze si rispettano, le decisioni dei giudici si rispettano, le leggi si rispettano ma si devono rispettare soprattutto le vittime.

Oggi è una giornata triste, una di quelle dove la giustizia non ha senso, a Trieste si è consumato l’ennesimo oltraggio a due ragazzi, i figli delle stelle, Demenego Pierluigi e Rotta Matteo i quali sono stati uccisi da una persona ritenuta non capace di intendere e volere quindi non imputabile.

Il pubblico ministero, nella sua requisitoria, quasi a scusarsi, ha dovuto chiedere l’assoluzione per una persona definita senza riserve un pericoloso assassino a cui però la giustizia nulla può esigere se non un ricovero coatto in una casa di cura per soggetti ritenuti pericolosi, una REMS.

Non un carcere quindi ma un ricovero, non una cella ma una stanza di albergo, nessuna giustizia dunque ma un vuoto epilogo devastante e assurdo.

Non è stata certo una sentenza inaspettata questa, che Augusto Meran se la sarebbe cavata era chiaro da tempo, che Matteo e Pierluigi sono morti inutilmente era limpido sin dall’inizio.

A noi che rimaniamo e assistiamo impotenti al giudizio della legge spetta probabilmente la consapevolezza che per non morire così bisogna fare di più in termini di dotazioni, organici, addestramento ma anche di leggi che aiutino l’operatore a essere più sicuro, meno esposto, gli operatori del settore sanno quanto sia difficile agire in sicurezza laddove gli strumenti a disposizione sono pochi e sbilanciati.

È solo colpa di Augusto Meran? Facciamo e abbiamo fatto abbastanza per tutelare i figli delle stelle prima che accadesse questa tragedia? Abbiamo capito in questo tempo terreno il perchè sono morti o ci sarebbe bastato solo condannare un colpevole? Perché è giusto prendersela con la legge, con i giudici che la applicano, con un assassino ritenuto malato di mente, ma è altrettanto giusto chiederci non solo il chi ma anche e soprattutto i perchè.

Ciao Matteo, Ciao Pierluigi, vi promettiamo che quaggiù continueremo a fare domande e a cercare risposte perché per una giustizia che non sarebbe potuta esistere solo quelle davvero servono per un “MAI PIÙ….”

In Giacca Blu – Michele Rinelli

Poliziotte, gonne e tatuaggi

Era il 1992 e il professore Roberto Vecchioni pubblicava “voglio una donna”, una ballata vivace e molto orecchiabile inno all’essere donna tradizionale, con la gonna, senza carriera, senza “pisello”, con i capelli lunghi… qualche anno dopo infatti iniziarono a passare le canzoni di “Skin” una cantante inglese eccezionale con i capelli rasati, look che per l’Italia di quell’epoca era fin troppo audace.

Sia la gonna messa in musica del 1992 ma soprattutto Roberto Vecchioni che ne cantava le doti identificative oggi sarebbero considerate sessiste, in fondo era un inno alla femmina che rimane al suo posto, in una visione patriarcale della famiglia, che oggi non solo non ha senso ma sarebbe anche offensivo…. Probabilmente lo erano anche all’epoca non certo con tutto il clamore che genererebbero oggi tant’è che il professor Vecchioni è scomparso, forse anche per quella canzone, dai radar della cultura pop italiana.

Gonne, sessismo, fluidità di genere, rispetto per chi nasce in un corpo ma fa di tutto per averne un altro, ancora in bilico tra gonna e pantaloni, questi sono tutti simboli di una modernità ineludibile e inarrestabile che non può non essere considerata normale. In mezzo a tutto questo mi ha colpito molto la storia del collega Alessio, entrato in Polizia da donna, un genere che non ha mai sentito suo e che, duramente, ha deciso di cambiare.

Alessio come tutte le persone che iniziano un percorso di transizione sono individui che nella loro vita esprimono molto coraggio, estrema determinazione, combattono tanta sofferenza, per affermare qualcosa che la natura gli ha dato a metà o forse gli ha proprio negato.

La sua storia che da qualche giorno imperversa sui social, e che ad alcune persone certamente può apparire superflua, inutile, funzionale a un certo pensiero, anche politico, racchiude in sé alcune domande e determinate ipocrisie.

Alessio, all’epoca del giuramento, non aveva ancora concluso il percorso di transizione ma voleva indossare i pantaloni per la cerimonia di giuramento, cosa che l’amministrazione della ps, in maniera intelligente, gli ha concesso.

Tra le ipocrisie che girano attorno a questa vicenda, la prima: abbiamo bisogno di essere ancora l’Italia del 1992 che tollerava che un uomo potesse cantare e ballare della gonna come elemento distintivo di genere? Abbiamo bisogno di donne, poliziotte, con le gonne?

La seconda: se siamo stati in grado di accettare Alessio nella sua affermazione di uomo, contraria a determinati e desueti dettami, siamo in grado di accettare, con le giuste valutazioni, individui che indossano innocenti tatuaggi?

Nelle pieghe di questa vicenda si nasconde tutta l’ipocrisia di quei meccanismi di modernità solo quando si è costretti ad accettarli, in fondo se il sistema concede giustamente a un poliziotto transessuale di affermare la sua lontananza rispetto a un documento che lo classifica al contrario di ciò che sente perché non può accettare una divisa innocentemente tatuata?

Sarà per caso che il fronte politico legato alle battaglie sulle discriminazioni di genere è più forte di quello che vuole il libero tatuaggio di chi entra in polizia?

Non è forse più forte, o più discutibile, per un certo tipo di arcaico pensiero, chi decide di andare contro la scelta della natura rispetto a chi si è voluto tatuare il nome del proprio figlio sul polso?

Che dite? Cominciamo a combattere davvero certe ipocrisie diventando davvero un paese moderno?

In Giacca Blu –  Michele Rinelli

COME SOPRAVVIVE UN POLIZIOTTO?!?!

Ci sono immagini che raccontano più di qualsiasi storia, istantanee che al solo scorgerle lanciano un brivido lungo la schiena e ci fanno ripiombare su quanto sia pericoloso indossare una divisa.

Siamo un paese che non è più abituato agli scontri a fuoco, ad armi che sparano, a delinquenti che agiscono per uccidere, per il puro gusto di veder scorrere il sangue.

Sono tre le immagini dell’agguato di Taranto che ci riagganciano alla pericolosità del nostro mestiere, i buchi sulla lamiera, il vetro dello sportello bucato dalle pallottole e il collega che casca sopraffatto dal dolore provocato dal proiettile che lo aveva trapassato.

Chi del mestiere e che ha visto quelle immagini deve riflettete su le tante questioni legate all’addestramento, all’equipaggiamento, alla particolarità di un lavoro bellissimo e pericolosissimo dove la pelle si deve vendere cara al nemico ma solo attraverso la coscienza e la consapevolezza di ciò che ogni giorno affrontiamo sulle nostre strade.

Sono sopravvissuti a un agguato, un gesto senza senso, per una tentata rapina a un concessionario di auto, una follia a cui non siamo abituati per un sistema, il nostro, che carcera pochissimo specie se nessuno si fa male.

Duplice tentato omicidio, questo è il capo di imputazione per il rapinatore che rattrista sapere essere una ex guardia giurata e che, evidentemente, per ragioni che sconosciamo, è passato dall’altra parte della barricata.

A noi che osserviamo e condividiamo non rimane che l’ulteriore consapevolezza che solo con i giusti equipaggiamenti, formazione e addestramento si può tornare a casa dai propri affetti.

Speriamo quindi che a seguito di questo evento si acceleri sulla necessità di dotare gli operatori di giubbetti di protezione comodi, funzionali, così adeguati da poter essere utilmente indossati da inizio a fine servizio.

Per le modalità con cui è stato sferrato questo attacco è chiaro si sia di fronte a un miracolo e a un funerale di stato sfiorato.

Non è nel mio intento attaccare oggi il sistema o di criticarlo ferocemente, negli ultimi tempi diverse sono state le innovazioni e le migliorie, forse potremmo criticare le priorità, forse si potevano spendere diversamente alcuni soldi, l’importante però è che la politica giunga, tramite le giuste osservazioni, a dotarci al più presto di strumenti difensivi davvero idonei e funzionali a chi ha il diritto di tornare a casa dai propri affetti.

Il polizotto è un mestiere pericoloso ma non possiamo affidarci ai miracoli ma all’addestramento e alle tecnologie esistenti, basta solo crederci e acquistarle.

In Giacca Blu – Michele Rinelli