Diaz, quel fazioso insulto alla cultura


Non esiste vera cultura a prescindere dall’onestà intellettuale, chi crede che si possa onestamente crescere culturalmente considerando solo ed esclusivamente ciò che più  piace e soddisfa non può non rendersi conto di abbeverarsi alla fonte della faziosità; pericoloso aspetto questo che attanaglia le culture di tutti popoli.

Non sono colto, non sono certamente una persona così qualificata da potermi ergere a mentore ma la visione del film “ DIAZ –  Non lavate quel sangue “ di Daniele Vicari al posto di avermi arricchito dell’opinione di un’altra parte mi ha semplicemente svuotato facendomi rendere conto che forse la ricerca della vera cultura è un esercizio che onestamente riesce a pochissime persone.

Non è facile scrivere e criticare una pellicola che ha tratti di una faziosità e di una violenza che nemmeno in “Schindler’s List” si possono ritrovare…e lì si parlava di Lager!

Bolzaneto peggio di Auswitz, poliziotti peggiori della Gestapo che difficilmente hanno tratti umani, se non in qualche piccola sequenza, rappresentati come mostri nella penombra, informi, senza colore e senza caratterizzazioni.

Un film DIAZ che poteva essere importante per raccontare duramente riconciliando che invece esaspera all’eccesso le peggiori situazioni riportate, anche falsamente, negli atti processuali che dice, nei titoli di coda, essere stati consultati al fine di rappresentare al meglio i fatti.

Quei titoli di coda che diventano ancora più tristi quando viene evidenziato con enfasi il patrocinio del “Ministero dei Beni Culturali” e per cui sono qui a chiedermi che razza di cultura si è voluta rappresentare in quelle due ore di assoluta e inumana violenza, così inumana che anche quelli che di botte in piazza ne hanno prese tante probabilmente nemmeno riescono a crederci sino in fondo.

Che l’esperienza della “DIAZ” sia stata fallimentare e che abbia rappresentato un punto di rottura tragicamente importante per la gestione dell’ordine pubblico in Italia credo sia da tutti un fatto conclamato, più difficile invece è capire a che serva rappresentare con così tanta disonestà una realtà di parte, assolutamente sbilanciata a favore di chi non vede l’ora di speculare ancora per anni sul “Quel sangue che non deve essere lavato”.

Io credo che nessuno voglia lavare quel sangue, men che meno i poliziotti che vi parteciparono e che a vario titolo stanno pagando, non solo in termini di carriera, la partecipazione a quegli eventi e non mi riferisco di certo a quanti, dall’alto delle loro poltrone, hanno gestito malamente quella catastrofe.

Ma con questo film quel sangue diventa strumento di ulteriore morte, di ulteriore contrapposizione, l’ennesimo modo di dare da mangiare a chi specula sulla pelle dei giovani e di chi con il loro genuino attivismo vuole contribuire a rendere questo mondo migliore, perché cosa vogliamo fare credere ? Che tra quei poliziotti non ci fossero agenti che hanno indossato quell’uniforme per fare del bene alla propria gente ?? Cosa vogliamo far credere ? Che quelle divise scesero in campo per soddisfare semplicemente la loro voglia di sadismo ?

Cosa vogliamo raccontare o meglio, cosa non si vuole raccontare ?

Non vogliamo raccontare quanti giovani in quei giorni furono sfruttati politicamente da certi capi popolo che avrebbero voluto, a seguito di quei tragici fatti, intraprendere una fulminante carriera politica anche grazie a quel sangue che non deve essere lavato ?

Cosa non vogliamo raccontare ? Non vogliamo raccontare di poliziotti esasperati che erano tutto tranne che automi?

Non vogliamo raccontare nemmeno l’animo di chi credeva di andare a prendere i colpevoli di tutti gli amici e i colleghi sfiniti e feriti anche gravemente durante le lunghe ore di battaglia ?

Gente che non avrebbe, a seguito di quelle giornate, nemmeno più indossato l’uniforme perché divenuta inabile al servizio!

Vogliamo veramente far credere alla gente che quello che è accaduto è stata la normale routine di chi compie un lavoro duro, specie in quei giorni, dove i servizi sotto il sole cocente duravano 8-10 ore con il solo conforto di qualche panino e qualche bottiglietta d’acqua ?

Quanto è facile instillare nelle masse, istituzionali e non, il miraggio di un certo obbiettivo, specie se le stesse sono, come in quel G8, esasperate dagli eventi e dalle demagogie ?

DIAZ è il film delle cose non dette, delle storie non raccontate delle violenze fini a se stesse e basta, una vera porcheria, idonea solo ad alimentare l’odio e la contrapposizione sociale, umana e culturale ciò di cui in questo momento storico la nostra nazione non ha certamente bisogno.

Michele Rinelli –  In Giacca Blu –

L’insostenibile irritazione della sporcizia


Nelle more del conformismo sfrenato nulla è ciò che sembra ed  è spesso facile tirare le somme, persi nell’omologazione che i tempi ci impongono, determinati da quel concetto dove è bello raccontare ciò che vogliamo sentirci dire, vedere, constatare e, di conseguenza, spesso condannare.

Condannare subito e sbattere il mostro in prima pagina ci assolve, ci libera, ci sostiene, ci fa ritenere che se tutto va a rotoli è sempre colpa di qualcun altro e pur di perdonarci l’immobilismo mentale puntiamo il dito sicuri di sentirci così al riparo dalle critiche altrui e dal nostro immobilismo.

Così che allora ci ritroviamo, pur di non volerci sobbarcare la sporcizia di questo mondo, a indignarci per quello sporco che alle volte diventa evidente, che ci finisce sotto il naso e ci provoca una reazione allergica, un po’ come quando ci scandalizziamo in occasione delle pulizie di natale o di pasqua quando troviamo sopra i mobili centimetri e centimetri di polvere e ci stupiamo come sia possibile tanto degrado nonostante la nostra continua cura nel tenere suppellettili e pavimenti sempre lindi e pinti.

Ed è per quello stesso principio, come quando sali su quella scala e guardi li dove nessun guarderebbe mai, che ci indignamo di quanto sia sporco il lavoro del poliziotto e di quanto sia difficile rimestare nel fango senza sporcarsi.

Quello sporco immortalato dall’anonimo regista Francesco Sperandeo che preso dalla smania delle pulizie pasquali non è più così tanto anonimo.

Ed è così che grazie a una fotografia rubata l’esimio e solerte cittadino, anonimo regista che da quell’anonimato così emerge, ci illumina su quella sporcizia che molti percepisco ma pochissimi ammetterebbero mai l’esistenza.

Ecco quindi  che in quella foto dell’immigrato con lo scotch sulla bocca si evidenzia l’ipocrisia dei cittadini comuni nonchè l’incapacità del sistema di respingere accuse assurde mettendo immediatamente alla gogna coloro che, pur sapendolo dal principio, fanno un lavoro sporco, quel lavoro che per essere pulito necessiterebbe, forse, maggiore comprensione, più tutela e magari qualcuno agli alti vertici che predisponesse per iscritto e senza ipocrisie come fare in ogni caso, in ogni situazione e in ogni circostanza.

Perché quello che la gente non sa è che per rimestare nel fango, senza sporcarsi, sarebbe necessario che qualcuno stabilisse con certezza procedure, regole, protocolli idonei così come fossero dei diagrammi di flusso in modo tale da ottenere una reazione certa ad ogni situazione in modo tale  da ottenere  un risultato concepibile e digeribile da tutti.

Tutelare quindi dignità, rispetto, umana condizione, li dove alberga lo sporco, il marcio, il contro senso di questa nostra società nonché il vuoto procedurale è pressoché impossibile senza che ciascuno, per il proprio livello di responsabilità, non si assume le proprie.

Così quindi su quel volo Roma Tunisi, davanti al puntuale obbiettivo dell’ormai noto regista Sperandeo si è consumata la visione di quella sporcizia che nessuno vuole vedere la cui pulizia e tollerabilità viene delegata ai singoli operatori la cui colpa è stata quella di tutelare se stessi e quella degli altri viaggiatori dalla violenza della disperazione con dei mezzi di fortuna che purtroppo ledono il concetto di pulizia o di sporco sostenibile da parte della sempre sensibile popolazione.

Non è facile tutelare la sicurezza di inermi viaggiatori, che certamente non meritavano di rischiare anche solo un raffreddore, per l’incapacità del sistema di fornire mezzi certi e regolamentati, puliti agli occhi del sensibile cittadino con l’occhio elettronico sempre a portata di mano.

Purtroppo l’utilizzo di mezzi di fortuna per preservare il diritto alla sicurezza di tutti è pratica comune in ogni dove, in moltissime situazioni anche meno clamorose di questa, perché non mi risulta che siano date in dotazione, nel caso specifico, idonee mascherine approvate dalla corte di cassazione, dai giudici ordinari e dai sensibili cittadini italiani o da Amnesty Intenational….i quali invito a ritrovarsi con noi nelle situazioni limite, sulle strade e sugli aerei, senza mezzi e protocolli certi così da decidere loro per noi quale sia la miglior pratica per non fare vedere lo sporco lì dove, purtroppo, è impossibile non possa annidarsi….come sopra i mobili di casa.

Michele Rinelli – In Giacca Blu

Diaz, quel sinistro suono della contrapposizione


Credo sia inevitabile avere voglia di parlarne specie per chi come me quei giorni ai “confini della democrazia”, come li definisce qualcuno, li ha vissuti se pur nelle retrovie, nel vivo.

Uno dei primi ricordi indelebili di carriera, neo Agente, gettato li quando ancora doveva capire effettivamente che cosa significasse indossare una così onerosa uniforme.

Nel luglio 2001, a Genova, in quel meccanismo di prevenzione dei reati, c’ero anch’io, sotto il sole rovente, nelle fresche notti a “Zena”, a guardare la lanterna e le luci delle imbarcazioni a largo.

Per certi versi sembrava una festa, eravamo tutti li, come fosse un raduno, si riuscivano a incontrare amici e colleghi  da ogni parte d’Italia di cui avevi perso le tracce e forse nemmeno immaginavi di rincontrare proprio in quel posto dove  si sarebbe scritto un pezzo di tragica storia Italiana.

Giovane, inesperto, non in mezzo ai lanci di pietre e affini, per la gioia di mamma e papà, e forse anche di qualche fidanzata; mai e poi mai potevo immaginare di assistere indirettamente al dramma umano, sociale e culturale che quel vertice politico avrebbe comportato, “DIAZ” compresa!

Ed in questi giorni “DIAZ” non sembra nemmeno più essere un nome anche esso legato alla storia ma un suono sinistro, cupo, fatto di emozioni negative, di disastro umano, di morti, sangue e feriti, la stessa sensazione che genera “Auschwitz”, non una località ma un unico suono come fosse un grido intriso di sangue, dolore e morte.

Così che in questi giorni, passando di fianco alle multisale cinematografiche, leggere quella parola, “DIAZ”, fa scendere un brivido lungo la schiena perché la storia, quella scritta da chi ha il dovere di scriverla ma che difficilmente sarà in grado di garantire equa distanza e obbiettività dei fatti, ci ha consegnato un’unica visione accettabile, incontestabile, inattaccabile, un po’ come accade quando finisce una guerra: la storia la scrive chi la vince e di certo le istituzioni democratiche e la polizia, purtroppo, in quell’occasione hanno probabilmente perso.

Hanno “perso” perché ci volle “DIAZ” per capire che i reparti mobili della Polizia di Stato dovevano essere innanzitutto trattati come uomini e non come automi pronti a tutto; l’importante era addestrarli ad affrontare le folle.

Ci volle “DIAZ” per capire che ogni singolo operatore doveva disporre degli strumenti umani e culturali per accostarsi a quello che dovevano affrontare per fare in modo che fosse meno facile per gli agenti essere trascinati anche psicologicamente dalla spirale di violenza che in determinati ed esasperati  contesti di piazza diventa necessaria.

Ci volle “DIAZ” per rivedere totalmente tecniche, protocolli, procedure, addestramenti così da creare una dicotomia netta tra vecchio e nuovo in modo tale da far venire alla luce una nuova struttura di addestramento per gli operatori impiegati nell’ordine pubblico in seno alla Scuola di Polizia di Nettuno(Rm).

Nuovi moduli, nuove impronte operative, nuovi mezzi, maggiore professionalità e maggiore dignità nei confronti di chi, suo malgrado, si poteva ritrovare  un giorno a scrivere pezzi di storia, anche tragica purtroppo,  come accade alla “DIAZ”.

Per noi, “DIAZ” fu anche questo, non solo violenza!

Quello che però non si capisce o meglio non si vuole capire che film scritti a senso unico, concepiti per denunciare e ricordare senza equidistanza, come vi fossero solo vittime e solo carnefici, non servono se non a quel concetto strumentale di continua contrapposizione tanto caro alla nostra sempre meno giovane democrazia.

Perché, a ben pensare, chi ci dice che la ciclicità di certi film, di certi eventi, di certe situazioni di piazza, non siano, tante volte, il frutto e la volontà di rinverdire determinate contrapposizioni ideologiche ?

Quale miglior modo, ai tempi dell’antipolitica imperante, per rigenerare sentimenti capaci anche di far ritornare gli sfiduciati cittadini alle urne  ?

Negli anni di internet e i suoi metodi di interconnessione tra le  persone è stato più facile assottigliare il baratro tra cittadini veri e poliziotti veri così tanto che nell’ultima grossa manifestazione svoltasi a Roma a ottobre 2011, nonostante i disastri perpetrati da singoli e ben organizzati soggetti, non è stato difficile documentare momenti di vera solidarietà tra chi manifestava e chi era li, tra le fila delle forze dell’ordine,  affinché potessero esprimere in sicurezza e liberamente il loro pensiero.

Dialoghi, vicinanze, empatie dannosissime al nostro sistema democratico basato in primis sulle contrapposizioni e sulla ricerca affannosa del nemico, una logica perversa ma di sicuro impatto elettorale.

Ed eccoci che arriva “Diaz”, il film,  con il suo suono sinistramente evocativo, che ci ricorda o meglio che vorrebbe ricordare,  che in quelle piazze, su quelle strade ci sono solo bestie, ci sono solo nemici, perché quei caschi blu non sono uomini ma esseri bastardi da annullare, massacrare e magari uccidere come successo al povero Filippo Raciti a Catania.

Non cadiamo nel tranello, non ascoltiamo il sinistro suono “DIAZ” impassibili, cerchiamo il seme dell’obbiettività, del tempo che scorre, degli sforzi fatti con impegno e dedizione dalla Polizia di Stato e dai suoi appartenenti affinchè non si ripeta mai più una  “DIAZ”, perché la vera forza per cambiare questo paese non è insita nella contrapposizione delle piazze e nell’inutile devastazione o violenza ma nel valore delle idee e nella voglia di far capire alla classe dirigente che nessuno sfogherà più le sue frustrazioni su un’ uniforme ma pretenderà vere, nette e chiare risposte da coloro che, in ogni tempo, verranno democraticamente eletti così che nessuna divisa possa supplire alle mancanze della politica.

Perché la violenza, da qualunque parte arrivi, non è la risposta ma solo un regalo a chi, da sempre, e senza vero amore per la patria ma solo per il potere,  specula sulla pelle di tutti, anche su quella dei poliziotti.

Michele Rinelli –  In Giacca Blu –

Polizia e caschi numerati, una proposta di legge ma nulla è ancora cambiato

A distanza di quasi un anno ritorna la polemica e la proposta dei caschi numerati da affibbiare agli appartenenti alle forze dell’ordine nelle manifestazioni di piazza. ( http://www.beppegrillo.it/listeciviche/liste/piemonte/2012/04/dalla-diaz-alla-valsusa-codici-identificativi-sulle-divise-dei-poliziotti.html )

Nonostante la bontà dell’iniziativa nulla è cambiato ancora a favore e a tutela  di chi svolge uno dei servizi cardine per il mantenimento di un giusto livello di democrazia nel paese.

Qui di seguito il mio punto di vista che, se nulla è cambiato, quello rimane.

Dalla home page di poliziotti.it del 20 luglio 2011

Gentilissimo Signor Grillo

…o preferisce Dottore ?

Uno come lei non può non essere un Dottore.

Di certo lo è della risata, per anni ci siamo scompisciati dalla platea dei suoi teatri sempre pieni applaudendola per le sue performance ironiche di tutto rispetto specie quando erano figlie della genuina voglia di far riflettere la gente.

Oggi che però si erge, gentilissimo Dottore, a Guru del nuovo modo di fare politica, oggi che attraverso tanto inutile populismo riesce, col suo piglio e la sua simpaticissima verve tutta genovese, ad accentrare su di se enorme interesse, forse, quelle risate, sono un po più amare e forse un pò troppo strumentali.

Leggevo la sua lettera aperta, così la definisce Dott. Grillo, al nostro Capo Dottor Antonio Manganelli, che, francamente, non credo perderà del tempo a risponderLe dato gli enormi impegni istituzionali e non solo che lo stesso avrà certamente in agenda. (magari mi sbaglio!)

Chi sono io ??

Io sono un cane da strada, uno di quelli che quando per errore (e spero sempre per errore) scatta l’allarme nella sua sontuosa villa genovese, arriva tutto trafelato lampeggianti e sirena accesa a sincerarsi che tutto sia in ordine, che nessuno abbia violato la sua serenità ne la sua bellissima dimora.

Sono uno di quelli che prende le botte per strada (che per carità a volte è costretto anche a darle per difendersi e tornare a casa tutto intero), uno di quelli che, come dice nella lettera aperta al nostro capo, potrebbe anche morire per tutelare quei pochi baluardi di democrazia che in Italia sono rimasti.

Sono uno di quelli che si è letteralmente scompisciato delle sue battute e per l’arte più antica del mondo che lei esercita…e non parlo della prostituzione, per carità, parlo della risata perché quella del giullare è tanto antica quanto quella del meretricio.

Leggo che spesso entra nel merito del rapporto tra polizia e cittadino e i richiami al G8 non di rado si intrecciano a sproposito con quel patto di fiducia che lei, giustamente, ritiene debba esserci tra la popolazione e la propria Polizia.

Non sono certamente fatti come quelli del G8 che vanno presi ad esempio. Non solo per la natura degli eventi in trattazione ma anche per la particolarità degli stessi che storicamente, a mio avviso, avrebbero bisogno di una chiave di lettura diversa e non solo a senso unico come ci si ostina a fare da anni.

Non è nemmeno con la responsabilizzazione eccessiva del singolo operatore che si potranno cambiare le cose perché in un Paese dove ogni giorno viene messo in discussione qualsiasi tipo di intervento da parte delle forze dell’ordine, sarebbe un ulteriore accanimento nei confronti di chi ogni giorno è costretto a essere valvola di sfogo e cuscinetto tra il cittadino e un sistema giudiziario e statale che troppe volte non è in grado di dare vere e serie risposte alla popolazione.

Guardi, di principio io non sono contrario al numero sul casco o comunque alla possibilità di identificazione univoca dell’operatore di polizia in un contesto di piazza, sarei favorevole se il mestiere che ogni giorno svolgo fosse davvero tutelato e se rappresentassi uno Stato fatto di cittadini che davvero attraverso di esso perseguono un obiettivo comune.

Giusto e sacrosanto è ritenere la responsabilità penale personale estremizzandola così come si fa nei paesi esteri ma all’estero, il poliziotto, sa di essere tutelato dal sistema, sa che se un manifestante rende permanentemente inabile al servizio un mio collega finisce in carcere senza sconti, finchè non arriveremo a questo, mi permetta signor Grillo, io il numeretto come le mucche, in piazza, non me lo metto!

Poi sulle responsabilità dei vertici, sulle presunte o reali promozioni, possiamo anche essere d’accordo ma in un Paese fatto di parlamentari che troppo spesso passano, non solo occasionalmente, tra le maglie della magistratura e che non hanno mai il coraggio di dimettersi come può pretendere avvenga la stessa cosa per quelle cariche che della politica sono la diretta emanazione ?

Non crede di sbagliare soggetto ? Non crede di prendersela con il “vaso di coccio” del sistema ?

Non crede che in Italia, dopo 10 anni, al posto di alimentare lo scontro con quell’altra parte della barricata, le forze dell’ordine, sarebbe meglio ricominciare a leggere la storia in un’altra chiave ?

Non crede sarebbe meglio togliere un po di santità ai manifestanti e valutare quanto, ambo le parti, siano vittime di un gioco di quel potere di cui lei sembra voler ogni giorno di più far parte ?

Dott. Grillo, io sono Michele Rinelli, un Assistente della Polizia di Stato, uno che ogni giorno scende in strada a prestare la sua opera nel miglior modo possibile e che cerca di smorzare alla meglio certe contrapposizioni sociali e culturali…quelle che, persone come lei, signor Grillo, dovrebbero smettere di alimentare.

Un cordiale saluto

Michele Rinelli – Poliziotto  (tratto da http://www.poliziotti.it )

Per certi versi della giustizia…vorrei essere un’ameba!!

Bisognerebbe avere il coraggio di non pensare, di non criticare, come delle striscianti amebe cercare il cibo vivendo senza un reale scopo, al limite della sopravvivenza così da rendere inutile il trascorrere dei giorni.

Nell’epoca di internet però è tutto assai difficile se non sei un ameba.

Rimane tutto scritto, archiviato, rintracciabile, a distanza di anni ciò che è stato scritto su di te sarà disponibile a tutti senza dover effettuare estenuanti ricerche in biblioteca: Google, che grande invenzione!

Ed ecco che ci consentiamo di sapere di tutto su tutto e su tutti, digitate pure il mio nome e cognome “et voilat” ecco uscire tutto ciò che in questi anni ho scritto, detto, pensato, parole che forse, ad oggi, dopo tanti anni, nemmeno più rispecchiano il mio pensiero: solo gli stupidi non cambiano idea!

Ma in quell’archivio c’è spesso la cronaca di vite sfortunate, di persone cadute nelle maglie della giustizia e mai pienamente riabilitate perché solo il sensazionalismo ha l’obbligo della pubblicità, solo quello, perché come diceva una famosa canzone, “tutto il resto è noia” ivi compresa la riabilitazione.

Non mi piace pensare che esiste l’ingiustizia della legge, non mi piace perché è dura da digerire per il lavoro che faccio ma proprio perché anch’io usufruisco di quell’archivio, facendo “Googling”, mi rendo conto che spesso e volentieri si perde traccia degli eventi perché non sono più sensazionali e solo grazie alla diretta conoscenza delle persone coinvolte verrai a sapere che quella storia non è finita così com’era stata sensazionalisticamente annunciata.

Vogliamo tracciare le colpe di questo sistema ?

Impossibile, inutile, dispendioso e forse poco interessante però ci penso perché a distruggere la reputazione all’epoca di internet basta un click ma chi ha la responsabilità di tutto questo non ci pensa, in fondo esercita il diritto di cronaca costituzionalmente garantito dalla nostra Repubblica.

E tra un click e l’altro, all’epoca dell’informazione su tablet, dove ogni cosa ha una spiegazione, in base a quello che qualcuno scrive, mi salta all’occhio una notizia che si annuncia così:  “Assalti esplosivi al bancomat, domiciliari per i sei della banda” .

Leggo i nomi degli assaltatori e tra questi mi sovvengono alla memoria altre cronache a loro legate anche in via indiretta così da pensare che almeno loro, se innocenti, potranno dimostrarlo tranquillamente tra i loro affetti, le loro questioni, la loro serenità familiare…..si serenità perché certo quei nomi non sono alla loro prima apparizione sulla cronaca e evidentemente hanno già scelto da che parte stare.

Serenità che invece non spetta a quattro poliziotti miei amici che tra un click e l’altro la loro estraneità ai fatti la devono dimostrare da dietro delle sbarre.

Sulle cronache i loro nomi non sono mai apparsi prima di quella brutta storia perché anche quando facevano qualche bell’arresto nessuno di loro ha mai preteso, e ci mancherebbe, la menzione delle generalità facendo fare a noi tutti, anche ai poliziotti lavativi, una bella figura.

Li hanno distrutti, annientati, vilipesi, dismessi come fossero gli ultimi dei delinquenti e ogni volta che qualcuno vorrà fare “googling” coi loro nomi così come qualcuno potrebbe fare con il mio  si sentiranno sempre e comunque sporchi anche se un giorno la giustizia, quella che oggi li tiene dietro le sbarre, accerterà la verità che se non sensazionale non godrà certamente della medesima pubblicità iniziale.

…e questo che non capisco ed è per questo che vorrei essere un’ameba.

Michele Rinelli – In Giacca Blu

Solo la Verità – (da cadutipolizia.it – di Fabrizio Gregorutti)

In questi giorni viene proiettato nelle sale “Romanzo di una strage” dedicato alle vittime della strage di Piazza Fontana a Milano del 1969.

Con l’occasione ripropongo su queste pagine uno scritto dell’amico e collega Fabrizio Gregorutti scaturito in occasione della grazia concessa a uno degli assassini condannati per  l’omicidio del Commissario Luigi Calabresi  del 17 Maggio 1972.

Calabresi protagonista nella pellicola di Marco Tullio Giordana è una figura importante della Polizia Italiana su la cui reale importanza umana è stato scritto e detto molto poco, un uomo dello Stato che ha creduto nella patria ma come molti assassinati finiti in un gioco più grande di loro è stato, probabilmente, da quello stesso sistema, abbandonato.

Buona Lettura 

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Solo la Verità

– di Fabrizio Gregorutti – http://www.cadutipolizia.it 

Il nostro compito non è giudicare la Legge, ma applicarla e rispettarla, in ogni sua forma, una sentenza, una norma giudica, un provvedimento di grazia.

Perché?

Perché siamo Poliziotti, perché se anche una grazia concessa  ad una persona condannata per l’omicidio di un Poliziotto  va contro ciò in cui crediamo, questa stessa è stata emessa nel nome del Popolo Italiano che noi appartenenti alla Polizia di Stato abbiamo giurato di difendere e quindi rispettare. Il nostro rispetto verso la Legge è incondizionato e totale ma finchè obbediamo con fedeltà non ci si può impedire di ricordare e di pensare.

Ricordiamo…

Il 17 Maggio 1972 il commissario Luigi Calabresi, padre di due figli e con la moglie in attesa di un terzo, dirigente dell’Ufficio Politico della Questura di Milano veniva assassinato da un killer, fuggito poi a bordo di una autovettura Fiat 125 con altri complici a bordo.

Il delitto segnava la fine di una campagna di delegittimazione e di odio con pochi precedenti nella storia del nostro paese e che affondava  le sue radici nel 15 Dicembre 1969  quando l’anarchico Giuseppe Pinelli, convocato per essere interrogato dalla Polizia sulla strage di Piazza Fontana avvenuta tre giorni prima e costata la vita a 17 innocenti ,  morì cadendo da una finestra al quarto piano della Questura di Milano. Secondo una sentenza emessa da un libero Tribunale della Repubblica Italiana emessa nell’ottobre 1975 nessuno dei poliziotti e dei carabinieri presenti nella stanza era responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, né tanto meno il commissario di Pubblica Sicurezza Luigi Calabresi che in quella stanza al momento nemmeno era presente al momento della morte dell’anarchico…ma nell’ottobre 1975 Luigi Calabresi era morto da tre anni, assassinato sotto casa con dei colpi di pistola esplosi alle spalle da un killer che per molto tempo rimase ignoto.

Ma prima di morire quel giorno,  sull’asfalto di Via Cherubini, una via trafficata nei pressi della Fiera di Milano, il commissario Calabresi aveva iniziato a morire minuto per minuto, ora per ora, giorno per giorno accusato da una campagna di linciaggio mediatico senza precedenti nel nostro Paese. Lo uccisero accusandolo di essere l’assassino di Giuseppe Pinelli, lui che in quel momento non si trovava nella stanza, lo uccisero accusandolo di avere ucciso un uomo innocente gettandolo dalla finestra, lo uccisero chiamandolo Commissario Finestra , Commissario Cavalcioni.

Cercarono di distruggerlo come Poliziotto e soprattutto come Uomo.

Ed uno degli organi di stampa  più attivi nel linciaggio morale dell’Uomo Luigi Calabresi fu un  giornale, voce di un movimento della sinistra extraparlamentare di quegli anni che, quando il commissario venne assassinato scrisse “ Calabresi era un assassino e ogni discorso sulla spirale di violenza, da qualunque parte provenga, è un discorso ignobile e vigliacco, utile solo a sostenere la violenza criminale di chi vive sfruttando ed opprimendo …..L’uccisione di Calabresi è un atto nel quale gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.

Passarono gli anni, molti, troppi anni e nel 1988 furono arrestati alcuni uomini accusati di avere ordinato ed eseguito l’assassinio di Luigi Calabresi. Questi uomini erano leader e membri del movimento che aveva scritto quelle terribili frasi che abbiamo riportato poco sopra.

Non entreremo in merito alla campagna innocentista in difesa degli arrestati. In un Paese Democratico come l’Italia chiunque ha il diritto, anzi il dovere di esprimere il proprio pensiero.

Diciamo solo che ben  otto processi ( fatto mai accaduto nella storia giudiziaria del nostro Paese) condannarono quelle persone per l’omicidio di Luigi Calabresi.

 

La persona condannata per essere l’esecutore materiale del delitto oggi ha ottenuto la grazia dal Presidente della Repubblica.

Pensiamo…

La famiglia Calabresi, l’unica titolata a esigere in questa terribile storia italiana , fin dal 1988 ha detto che non si sarebbe mai opposta alla grazia Presidenziale ma avrebbe voluto che gli accusati ammettessero le loro responsabilità e soprattutto che il linciaggio mediatico al quale fu sottoposto Calabresi fu ignobile ed infame.

La persona  condannata per essere stato l’assassino del commissario Luigi Calabresi non è più l’omicida del 1972. E’ un uomo malato che in carcere si è sempre comportato con dignità. E l’uomo che richiedendo la grazia al Presidente della Repubblica ha riconosciuto l’Autorità dello Stato. E’ soprattutto colui che dopo avere assassinato Calabresi risalendo su quella Fiat 125 con a bordo i suoi complici mormorò sconvolto “ che schifezza ci hanno fatto fare” .

Noi Poliziotti oggi non vogliamo vendette. Giustizia è stata fatta in nome del Popolo Italiano e questo ci basta. Lo Stato può permettersi di essere generoso nei confronti di un uomo malato.

Ma da quello stesso uomo noi vogliamo una sola cosa:  la verità, nulla di più e nulla di meno.

Vogliamo che l’uomo che pochi istanti dopo avere ucciso riconobbe con se stesso l’orrore di quanto aveva fatto ritrovi il coraggio e dica davvero ciò che accadde quel giorno e perché.

Non vogliamo altro, come Cittadini di questo Stato per il quale Luigi Calabresi è morto.

Ci basta solo la verità.

(Fabrizio Gregorutti)

Tratto da http://www.cadutipolizia.it

La sfiducia nelle istituzioni e quell’applauso alla morte

Non è difficile solidarizzare con chi subisce un torto.

Sappiamo bene tutti, in taluni casi, da che parte stare ma è forse più difficile discernere e valutare come manifestare una certa solidarietà e soprattutto capirne le cause se la stessa racchiude in se tutte le storture e le incongruenze, anche violente,  di questa società.

A Fermo (AP) è successo un fatto tragico che dovrebbe porci più di qualche interrogativo prima di mettere mano alla pratica della solidarietà a tutti i costi.

A seguito di una tentata rapina è morta una donna, una rapinatrice, che in concorso con due uomini armati, di quella che poi sarebbe risultata una scacciacani, volevano fare piazza pulita degli ingenti valori presenti all’interno di una gioielleria.

Il gioielliere, con non poco coraggio, è riuscito ad affrontare i malviventi, per tutelare il padre che negli attimi tragici della consumazione del reato  stava entrando nell’esercizio commerciale.

Così già ferito e forse quasi rassegnato al drammatico evento riesce a estrarre un arma da fuoco, scaricare tutto il caricatore e colpire a morte Rosa Donzelli, 36 anni, di Napoli.

Quello su cui sarebbe bene riflettere, prima di esprimere la giustissima e giustificatissima solidarietà al gioielliere, è il fatto che a seguito di un così tragico evento la folla all’esterno della gioielleria ha osannato il commerciate applaudendolo mentre veniva caricato in ambulanza nello stesso luogo ove, a pochi metri,  giaceva senza vita al suolo la giovanissima esistenza di una donna che certo, è bene dirlo, non aveva intrapreso una strada giusta e virtuosa.

Non si tratta di fare il “cerchiobbottista” o di voler teorizzare all’eccesso la tutela del diritto alla vita anche dei delinquenti perché la Sig.na Donzelli, in quel contesto, non poteva essere certo considerata una brava ragazza lavoratrice.

Quello su cui voglio riflettere è il valore intrinseco di quell’applauso che nella sua drammatica naturalezza, che accomuna certamente il pensiero di molti, rappresenta prima di tutto il fallimento dello Stato nella sua capacità di rendere il cittadino sicuro di una pena equa e certa che verrà inflitta a chi si macchia di così gravi reati.

Se vi fosse nel sentire comune questo sentimento non credo avremmo assistito a un gesto così fragoroso e plateale perché ritengo sia nella cultura italica il rispetto della vita e del prossimo anche se questi ha scelto una vita da fuorilegge, nei confronti di una donna poi che, nell’immaginario collettivo, più difficilmente si  associa alla figura del rapinatore e che certamente suscita, o almeno dovrebbe suscitare, una pietà umana di livello superiore.

Se ciò è accaduto è perché, forse, quel sentimento di umana cristianità di cui è (o forse era) intriso il nostro comune sentire sta cedendo il passo alla più macabra necessità di farsi giustizia da soli li dove si palpa, e non solo nel Comune di Fermo, l’assenza di un sistema istituzionale capace di tutelare il cittadino rendendolo sicuro nelle strade, nelle proprie case e, se vogliamo, anche in quelle gioiellerie, posti che per loro natura sono comunque  pericolosi.

La giustizia farà il suo corso, il gioielliere, che forse ha sparato per difesa, per paura, magari anche per rabbia, nel vedere che il frutto del suo lavoro stava per essere sottratto senza la certezza di poterlo recuperare, verrà sottoposto a un giusto procedimento penale così come vuole il nostro ordinamento ma non dimentichiamoci nell’agire quotidiano che se cominciamo ad applaudire, in maniera così spontanea e fragorosa, alla morte di una giovane vita che ha scelto una strada sbagliata, significa che il solco tracciato dalla “giusta ingiustizia” nell’ottica di quella  “fai da te”, sta diventando sempre più profondo e sempre più pericoloso.

Michele Rinelli – In Giacca Blu –